La scoperta del continente vero
Marco Trovato
Direttore editoriale della rivista Africa
«Le dichiarazioni secondo cui l’Africa è stata esplorata sono avventate come le notizie della sua morte imminente. Un’indagine davvero illuminante sull’Africa deve ancora avere luogo». Sono parole amare pronunciate da Wole Soyinka, scrittore e poeta nigeriano, primo intellettuale africano a ricevere il Premio Nobel per la Letteratura. Sono in tanti a pensarla allo stesso modo: l’immagine di questo continente è tuttora deformata dal pietismo, dall’esotismo, dal qualunquismo, dal pressappochismo… Lo sguardo miope con cui l’Occidente guarda all’Africa alimenta stereotipi e luoghi comuni. E non permette di vedere come e quanto il “mondo nero” stia cambiando. Fanno notizia solo le guerre civili, le scandalose povertà che attanagliano milioni di persone, le malattie d’altri tempi che falcidiano i bambini. Ma ignoriamo la straordinaria vitalità dell’Africa: l’età media dei suoi abitanti è di 19 anni (quella degli italiani è di 45). La sua popolazione — stimata oggi in circa un miliardo e 200 milioni di persone — è destinata a raddoppiare nei prossimi trent’anni. Nel 2050 sarà africano un abitante della Terra su quattro. E nel 2100 un abitante su tre nel nostro pianeta avrà la pelle scura. Parlare oggi dell’Africa significa parlare delle sfide dell’umanità: anzitutto, la promozione di uno sviluppo condiviso e sostenibile.
La disoccupazione e la mancanza di prospettive alimentano il fenomeno migratorio. Benché l’economia del continente mostri segnali positivi da almeno quindici anni, la crescita del Pil non è sufficiente né equamente distribuita e la forbice tra i più ricchi e i più poveri continua a crescere. In troppi casi, inoltre, il tanto celebrato boom economico risulta essere dopato dall’esportazione di materie prime, idrocarburi o minerali strategici per l’industria mondiale. Esportare merci non lavorate significa anche esportare posti di lavoro. E l’Africa, con la sua popolazione giovane e assetata di futuro, ha un disperato bisogno di opportunità lavorative. Ogni anno in Africa vengono creati 3 milioni di nuovi posti di lavoro, ma i ragazzi e le ragazze in cerca di un impiego sono quattro volte di più. Per contrastare l’emorragia di giovani occorre affrontare le molteplici sfide che segneranno il destino del continente: la stabilità e la pace, la lotta alle povertà e alle sperequazioni sociali, l’accesso all’acqua e alla sanità, il contrasto alla corruzione, colossali investimenti per comunicazioni, infrastrutture, trasporti ed energia rinnovabile, lo sviluppo dell’agricoltura e dell’industria. La crescita del settore manifatturiero (ovvero la trasformazione dei prodotti grezzi in beni di consumo) e la creazione di un mercato libero africano consentirà di creare enormi opportunità occupazionali, diversificherà le voci dei bilanci (rendendo le economie nazionali più solide e meno dipendenti dalle fluttuazioni del mercato delle commodities) e infine stimolerà i consumi interni. Qualcosa già si muove. In Nigeria (primo esportatore africano di petrolio) si costruiscono raffinerie; in Camerun, segherie industriali e mobilifici; in Costa d’Avorio (leader mondiale nella produzione di cacao), le prime fabbriche di cioccolato. L’incipiente classe media — istruita, benestante, ambiziosa — vuole recuperare il tempo perduto. Nelle grandi città fioriscono centri commerciali, palestre, cinema.
Boom demografico e crescita del potere di acquisto fanno dell’Africa un mercato di straordinario interesse per il futuro. Se nel corso dei decenni le ex potenze coloniali hanno perso terreno e credibilità in Africa, quello spazio è stato progressivamente occupato da altri: Russia, Turchia, India, Brasile, Corea, Arabia Saudita. E soprattutto, la Cina. Pechino è diventato il primo partner commerciale e maggior investitore dell’Africa. Ha conquistato il primato delle relazioni diplomatiche ed economiche con nazioni strategiche un tempo legate all’Europa o agli Usa. La stessa sede dell’Unione Africana, una torre di venti piani inaugurata sei anni fa ad Addis Abeba, è stata presentata come un regalo della Cina.
Il numero di immigrati cinesi in Africa è stimato in un milione e duecentomila, cifra probabilmente di molto inferiore alla realtà. In alcuni Paesi, specie i più fragili e corrotti, i controlli alle frontiere sono inefficaci e l’immigrazione illegale è più che tollerata. Le radici dei legami tra la Cina e l’Africa affondano nella storia (nel 1415, mentre le caravelle portoghesi approdavano nel Golfo di Guinea, una nave commerciale cinese portò a Pechino una giraffa prelevata nelle regioni orientali del continente: l’evento è raffigurato da un dipinto custodito nel museo di storia della capitale cinese). Ma l’imponente flusso migratorio dalla Cina è esploso negli ultimi vent’anni (nel 1998, in tutta l’Africa i cinesi erano 150.000) e prosegue a ritmi impressionanti. Quella cinese è certamente una nuova forma di colonialismo, ma a ben guardare risponde alle logiche di sempre. La Cina preleva petrolio dall’Angola e dalla Nigeria, rame dal Congo, uranio dalla Namibia, bauxite dalla Guinea. In molti accusano il Dragone di sostenere regimi autoritari, è tuttavia difficile sostenere che gli europei in passato si siano comportati diversamente. Basti pensare alla lunga sequela di spietati dittatori che hanno goduto della connivenza e della protezione delle ex potenze coloniali. E considerazioni simili potrebbero essere fatte laddove si muovano critiche a Pechino – peraltro spesso fondate – per i danni ambientali causati dalle sue aziende, per la qualità scadente e gli impatti dei suoi prodotti, per lo sfruttamento dei lavoratori, per la vocazione predatrice e l’atteggiamento razzista di molti uomini d’affari. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire.
L’invasione delle stoffe cinesi, di bassa qualità e talvolta tossiche, ha devastato la produzione artigianale dei tessuti tradizionali. Analogamente, l’Europa ha permesso e permette di esportare vecchie automobili (un esempio fra i tanti) considerate troppo inquinanti e insicure per viaggiare nel vecchio continente ma adatte a sbuffare veleni sulle strade d’Africa. La crescente domanda dalla Cina di pelli d’asino (per realizzare un popolare farmaco tradizionale, l’ejiao, usato per curare l’insonnia e aumentare la libido) ha drasticamente ridotto la popolazione di asini – e fatto volare il loro prezzo – in Niger, Etiopia, Kenya e Burkina Faso, con conseguenze devastanti sui contadini locali, che hanno spinto i loro governi a porre qualche freno alla mattanza. La richiesta di avorio e di corni di rinoceronte ha alimentato il commercio abusivo dei bracconieri, mettendo a rischio specie minacciate di estinzione.
Tuttavia gli occidentali non sono certo nelle condizioni di dare delle lezioni. Non è un caso se a tanti africani i giudizi dell’Occidente sulla politica cinese in Africa suonano spudorati e irritanti. A preoccupare, semmai, è il livello di indebitamento di molti Paesi subsahariani verso Pechino. Le grandi opere vengono finanziate dalle banche cinesi – controllate dallo Stato – che dispongono di enormi liquidità e offrono piani di ammortamento decennali a tassi convenienti. I debiti contratti legano per l’avvenire i governi africani alla Cina. E il loro peso rischia di diventare insopportabile. In alcuni casi, come in Kenya, Angola o Mozambico, il livello di indebitamente sta superando il livello di guardia.
Il boom demografico africano sta lentamente compensando lo svuotamento del continente operato dalla tratta degli schiavi, quando decine di milioni di giovani furono strappati con la forza dalle loro terre. Non a caso, ancora oggi, in rapporto alle sue dimensioni, l’Africa resta un continente largamente sottopopolato (33 abitanti per kmq) e con potenzialità di sviluppo enormi (vanta il 60% delle terre coltivabili e il 65% delle risorse naturali non ancora sfruttate del pianeta). Invece di lamentarci dello strapotere cinese nel continente dovremmo interrogarci sulla nostra incapacità di mantenere proficui rapporti di collaborazione e di cooperazione con gli stati africani. Le nostre attenzioni sono occasionali, inadeguate, ispirate spesso a progetti predatori. La nostra politica denota un atteggiamento superficiale, supponente, paternalistico. Fuori dal tempo e da ogni logica. Continuiamo a guardare all’Africa con sguardo miope e distorto. E la colpa è anzitutto dei media: di chi filtra, maneggia e diffonde le notizie. «Informare sull’Africa significa dare voce a chi non ha voce». È un’espressione che ho sentito ripetere per decenni nel mondo missionario, del giornalismo e della cooperazione. Un tempo forse aveva le sue nobili ragioni d’essere, ma rimaneva comunque ambigua: fino a che punto il processo di “amplificazione” della “voce” dell’Africa le rimaneva davvero fedele, e fin dove, invece, il mediatore, l’informatore, vi si sovrapponeva? Quelle parole, poi, benché pronunciate coi migliori propositi, tradivano un malriposto approccio umanitario, tipico di chi si occupa a vario titolo di Africa. Portare a conoscenza dell’opinione pubblica fatti e personaggi di rilievo è il mestiere del giornalista; ma se si tratta di documentare una crisi dimenticata in Congo o in Centrafrica il cronista finisce per percepirsi – ed essere percepito – come un “missionario delle notizie”. È un retaggio culturale (che spesso cela una supposta presunzione o distorta percezione di superiorità), di cui non siamo stati ancora capaci di sbarazzarci, benché gli africani – intellettuali, blogger, cronisti, attivisti – vogliano giustamente farsi ascoltare, senza l’aiuto di portavoce.
L’Africa, nel nostro modo distorto di ragionare, non va capita, conosciuta, raccontata. Va aiutata, va salvata. Se facciamo lo sforzo di affrancarci dalla retorica e dall’autocompiacimento, le cose ci appaiono per certi versi rovesciate. Restando alla sfera personale, per esempio, è grazie all’Africa se ho un lavoro che mi dà uno stipendio e tante soddisfazioni. Non sono in credito con questo continente, semmai dovrei sentirmi in debito. E, a ben guardare, il ragionamento può essere allargato. Consideriamo la galassia italiana del settore non profit, che impiega circa ottocentomila persone: molte di loro lavorano per ong, onlus, cooperative, associazioni, enti caritatevoli che hanno legami con l’Africa. Poi ci sono le decine di migliaia gli italiani che vivono e lavorano nel continente africano (per dare un’idea, solo in Sudafrica ci sono più di 35.00 iscritti all’anagrafe consolare). Sono imprenditori, commercianti, cooperanti, diplomatici, ricercatori, reporter, operatori turistici, artisti, dipendenti di agenzie di sviluppo o di multinazionali… Tecnicamente andrebbero considerati “migranti economici”, ma questa definizione nell’immaginario collettivo occidentale mal si concilia con il colore della nostra pelle. Cosicché preferiamo definirci “espatriati”. Badate bene, non è solo una questione formale: le parole che usiamo sottintendono un modo di pensare. Un amico congolese tempo fa mi ha lanciato una frecciata: «Voi europei amate ripetere “aiutiamoli a casa loro”. Un refrain che sento pronunciare in continuazione da politici, attivisti, uomini e donne di cultura. Ebbene, per onestà intellettuale, la frase corretta dovrebbe essere “aiutiamoci a casa loro”». Il nostro rapporto con l’Africa è spesso malato di egocentrismo, paternalismo, pietismo. Anche quando facciamo il nostro dovere, il nostro mestiere, ci sentiamo investiti di una missione umanitaria, salvifica. Ma gli africani non hanno bisogno di filantropi e benefattori. Hanno bisogno di rispetto.
Tutto è in movimento con una velocità impressionante. Un tempo, arrivando in Africa avevo la sensazione di approdare su un altro pianeta, tanto mi appariva diverso il mondo che mi circondava. Oggi, quando atterro in una capitale del continente ritrovo scene e immagini familiari: gente concentrata sullo smartphone, pubblicità di marchi di successo, affollati negozi di catene multinazionali che hanno colonizzato ogni angolo del mondo. La globalizzazione e la rivoluzione digitale hanno trasformato il pianeta in un grande villaggio, spingendo le popolazioni a uniformare comportamenti e stili di vita. L’avvento delle nuove tecnologie rappresenta senza alcun dubbio una grande opportunità per l’Africa. L’exploit della telefonia mobile sta compensando la cronica carenza di linee fisse, colmando un gap tecnologico che limitava enormemente le possibilità di comunicare e di tenersi informati. L’accesso a internet ha permesso a 400 milioni di africani (un terzo della popolazione) di rompere la sensazione di isolamento, di dilatare gli orizzonti, di abbattere barriere che fino a poco tempo fa sembravano insormontabili.
Oggi anche a Nairobi, Lagos, Kinshasa, Dakar, i giovani utilizzano il web per collaborare a distanza, condividere contenuti, sviluppare idee e progetti. Esattamente come fanno i loro coetanei a qualunque latitudine. Fioriscono blog, applicazioni, startup, piattaforme realizzate da sviluppatori africani. E c’è chi sfrutta le potenzialità della Rete per farsi conoscere, promuoversi, esprimere a una platea mondiale il proprio talento artistico, culturale, imprenditoriale (contribuendo così a cambiare la percezione stessa dell’Africa nel mondo).
Internet ha favorito l’accesso alla conoscenza, promosso la partecipazione civica, incoraggiato e facilitato il controllo della società civile sui governanti (che non a caso cercano di limitare e censurare la libertà della Rete).
Ma la rivoluzione digitale ha favorito anche l’importazione e la diffusione di modelli culturali che stanno squassando le società tradizionali africane.
Le nuove generazioni guardano all’Occidente – o meglio all’immagine che il nostro mondo ostenta – come a un faro. Ne sono attratte e naturalmente ne assorbono, assieme a stimoli e valori positivi, anche le distorsioni e i risvolti più problematici. Non solo l’individualismo, ma anche il consumismo sfrenato, l’assillo per il successo economico, la vita sempre più frenetica e spietata (chi non sta al passo, resti indietro, emarginato). La monetizzazione dei rapporti sociali e la frantumazione della famiglia allargata sono i sintomi della crisi iniziata con l’urbanizzazione e acuita oggi dalla digitalizzazione.
Riuscirà ora a non piegarsi al conformismo, a preservare la sua originale creatività, a non smarrire la strada, a resistere all’omologazione che pare avvolgere l’intero pianeta? Il rischio vero è che la globalizzazione dei consumi finisca per annientare ogni differenza. Ma lo spirito indomito dell’Africa saprà sopravvivere anche a questa prova. Così come è rimasto vivo durante i periodi bui della sua storia: lo schiavismo, il colonialismo, le guerre per procura alimentate dalla bramosia di tiranni e potenze straniere (spesso collusi tra loro). Troppe volte l’abbiamo data per spacciata: analisti e osservatori hanno sentenziato la fine incombente di un continente “maledetto, senza speranza, sull’orlo del baratro, destinato a soccombere”. E invece, anche nei momenti più difficili, nelle prove più dure e improbe, la culla primigenia dell’umanità, con la sua straordinaria resilienza, ha saputo sorprenderci. Continuerà a farlo. Beffandosi delle nostre previsioni. Stupendoci come sempre. Quasi a volerci dimostrare che un altro mondo non solo è possibile, esiste già.